Domenico Notarangelo

Scomparso il 4 dicembre 2016, Domenico Notarangelo era un talento del calibro di Henri Cartier-Bresson e di Sebastião Salgado.

A differenza di questi due giganti della fotografia del secolo scorso, Domenico Notarangelo non ha viaggiato per il mondo. Tutto il suo lavoro si è concentrato dove era nato e dove viveva, in Puglia e in Basilicata, dove il tempo, i luoghi e gli spazi sono i protagonisti di opere fotografiche in cui bambini, donne, animali e uomini celebrano il rituale dell’esistenza in armonia con l’infinito.

Domenico Notarangelo è stato soprattutto un giornalista e un dirigente politico capace di restituire un quadro delle vicende politiche e sociali della Puglia e della Basilicata del secolo scorso, inserite nel più ampio contesto della storia e della cultura nazionale.
  • Archivio Domenico Notarangelo
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Nato il 6 marzo del 1930 da una famiglia contadina a Sammichele di Bari, in Puglia, entra in seminario nel 1943 e lì vive l’esperienza dei bombardamenti del 1945 su Bari. Ritorna al paese natale nel 1946 dove la Curia lo allontana dal Seminario a causa delle sue simpatie per il Comunismo. Dopo gli studi liceali ad Amalfi giunge in Lucania nella seconda metà degli anni ’50 stabilendosi a Matera, la sua città di adozione.

Nella Città dei Sassi si è dedicato all’attività politica e di operatore culturale e ha scoperto le affinità elettive che hanno dato senso ed ispirazione ai suoi molteplici impegni. È stato per un quindicennio corrispondente dalla Basilicata per il quotidiano L’Unità.

È stato scrittore dalla prosa feconda ed accattivante e soprattutto uno storico delle tradizioni popolari, un antropologo, un fotografo, uno scenografo, un uomo di cultura a tutto tondo e un competente meridionalista. In tempi più recenti è stato caporedattore di importanti emittenti televisive meridionali dove, abituato com’era a esporsi e a pagare in prima persona, ha sempre insegnato ai giornalisti a ”tenere la schiena dritta” soprattutto, diceva, “quando parlate con i fatti e parlate di quanti non possono difendersi”.

Ha sempre accompagnato l’interesse professionale alla ricerca e allo studio della storia del territorio, della cultura rupestre e della civiltà contadina, delle tradizioni popolari e della devozione, oltre alla storia politica, del sindacato, del giornalismo. Fino agli ultimi mesi di vita ha continuato a pubblicare saggi e libri di fotografia.

Si è dedicato anima e corpo a ricercare, narrare e rivalutare le tradizioni popolari con la passione civile e l’attaccamento straordinario alla cultura della “paesanità” e ha raccolto e documentato testimonianze di costume e religiose oltre ad una larga messe di documenti che oggi costituiscono uno dei più importanti archivi privati del Mezzogiorno.

A lui il grande merito di aver documentato la civiltà contadina seguendone la progressiva scomparsa. Un processo che è andato di pari passo con politiche di industrializzazione approssimative e fallimentari insieme con la scoperta dei giacimenti di gas che hanno creato nuovi pretesti per guardare a queste terre come si guardavano le colonie da sfruttare.

Molto spesso ha collaborato con importanti registi che hanno girato film in Lucania, in modo particolare con Pier Paolo Pasolini quando ha realizzato a Matera il suo “Il Vangelo secondo Matteo” e con Francesco Rosi come aiuto scenografo nel “Cristo si è fermato a Eboli”. In campo cinematografico ha collaborato inoltre con Liliana Cavani, Luigi Zampa, Brunello Rondi, Vittorio Taviani, Lino Miccichè e con quanti, intellettuali e politici, ebbero a che fare, per lungo o breve tempo, con la Puglia e la Basilicata.

La prefazione dell’ultimo libro fotografico di Domenico Notarangelo intitolato “E fu subito Lucania”, Goffredo Fofi titola “Prima del genocidio del mondo contadino” e afferma “è proprio di questo che Domenico Notarangelo si è occupato, della terra che ha amato profondamente, della terra che lui definiva di fatica e dolore; la terra della brava gente, sempre in lotta per il riscatto”.

E dice bene infine Ferdinando Mirizzi nella postfazione allo stesso libro quando scrive “le singole figure e i gruppi ritratti da Mimì, i suoi primi piani, paiono comunicare un senso di fiducia nell’avvenire e voler affidare alla testimonianza del fotografo un messaggio di speranza. Non c’è lo stereotipo visivo della Basilicata come terra arretrata ed esotica prodotta dalla fotografia che potremmo definire “sociale”, degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento , ma un mondo che si apriva al cambiamento”.
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